L’odore delle focaccine cotte
sulla pietra dagli uomini di Tebaldo giungeva da sotto la tenda che era stata
montata sulla spiaggia, aperta su tre lati e non molto ampia; una specie di
tettoia di panno. Il signore del pontile, con i capelli riccioluti che
ondeggiavano sotto le spinte del persistente vento marino, stava assaporando del vino con il comandante della nave.
«Figlio di Arnaldo, unisciti a noi.»
Folco salutò i marinai e si avvicinò ai
due uomini. Quando sorseggiò il vino dalla coppa offerta sentì la testa
pulsargli per qualche istante prima che il corpo assorbisse l’alto volume
alcolico.
«È buono, o no?» gli domandò Tebaldo.
«Molto forte» schioccò le labbra «non
avevo mai provato niente di così aromatico.»
«Ho mescolato alcuni vitigni che di solito
vengono sfruttati separati.»
«Vini così se ne trovano di rado, la
vostra terra è benedetta per questo» disse il veneto.
Tebaldo era entusiasta dei loro
complimenti. Continuava a tirarsi via i capelli dal volto e non smetteva di
sorridere.
«I miei avi decisero di trasferirsi qui
anche per questo.»
«A te, franco di stirpe franca» brindò Folco,
ricordando che Tebaldo così amava esordire ogni volta che prendeva la parola a
una qualche riunione di nobili.
«Ben detto, giovane Folco.»
«I miei marinai hanno incupito tutti
quanti, vero?» cambiò d’un tratto discorso Cesare dei Braghi, schiarendosi la
gola.
«Temono i saraceni.»
«Saraceni? Non se ne vedono da almeno due
anni, e tutte le volte hanno preferito non perdere tempo qui da noi» intervenne
Tebaldo.
«Già, ma ora che hanno bastonato le forze del Doge sono padroni dell’Adriaticum»
«E non sarebbero dovuti giungere, ormai?»
domandò Folco per saggiare la loro risposta e confrontarla con quella dei
marinai.
«Sì» Cesare non disse altro, tornò a
ingollare il vino guardando di traverso la sua barca. Tebaldo fece spallucce.
«E allora perché non li abbiamo visti?» domandò il franco.
«C’è sotto qualcosa» disse Cesare
riprendendo il discorso.
«Ma no, siete dei paranoici che non vedono
al di là della prime onde» indicò il mare. «Io ho respinto tre incursioni in
dieci anni. Per me hanno capito che aria tira a molestare i sudditi
dell’imperatore. E se anche hanno avuto ragione della gente del Doge, devono
aver preso la saggia decisione di approfittare della vittoria e darsi alla
coltivazione» ridacchiò divertito, ma Cesare non parve affatto convinto, scosse
il capo e si alzò per andare a prendere una delle pastelle di farina cotte
sulla pietra.
«Lasciamo stare, piuttosto: prepariamoci per un banchetto di quelli che non si dimenticano. Tuo padre è già stato messo al corrente
dell’arrivo di Cesare, fra poco verrà lui stesso a invitarci a cena.» disse Tebaldo, versando altro vino nella coppa di Folco.
Il ragazzo si sporcò appena le labbra, perché il vino non allungato era troppo
forte per i suoi gusti, e annuì, ricordando di aver visto uno dei ragazzi del
franco dirigersi verso il Vicus a dorso di mulo.
«Verrà addirittura qui?»
«Certo! Cesare è un buon amico e grazie a lui dovremmo
riuscire ad aprire una nostra dogana.»
I proventi della quale avrebbero dato
linfa vitale nuova alla piccola comunità che cercava di risorgere dalle rovine
dell’antica Cluana. Era il sogno di suo padre, pensò con una lieve eccitazione Folco,
che era cresciuto nel mito del glorioso passato romano e sentiva, nel profondo,
che il suo genitore l’avrebbe realizzato.
***
Arnaldo figlio di Ugo, nobile discendente
dei guerrieri che resistettero all’imperatore Carlo e a lui si sottomisero
solo dopo aspra lotta, entrò dalla porta dei monti salutato dagli uomini di guardia.
Ricambiò con un cenno e rivolse una
smorfia a Arechi che, accaldato, si
appoggiava in un angolo. Scosse la testa immaginando che si fosse trattenuto
con qualche contadina compiacente. Il guerriero, intuendo il pensiero del suo
signore, sgranò gli occhi negando con il capo.
«Non preoccuparti, prenderò a servizio
tutti i tuoi bastardi» sorrise. «Sempre che dimostrino di avere un briciolo di
sale in zucca più del padre.»
Le risate degli altri armati soffocarono
il tentativo di Arechi di rispondere, e
Arnaldo seguitò lungo la strada principale. In realtà non era molto di più di
un sentiero ricavato in gran parte sul tracciato ormai dissestato di un’antica
viuzza pavimentata, una di quelle minori, perché distante dal vecchio foro di
Cluana. Ciuffi d’erba e ciottoli dissestati rendevano il passo discontinuo in
alcuni punti, ogni tentativo di rimettere in sesto l’antica opera veniva
vanificato dall’imperizia degli operai e la pioggia o il passaggio di carri e
cavalli aprivano nuove buche sempre più profonde. In alcuni tratti erano state
scalzate via le pietre, soprattutto davanti alle porte di casa degli abitanti
del Vicus che, arresisi dinnanzi all’inesorabile degrado del Pavimentum, lo
strato superficiale, ne avevano riutilizzato i materiali per le proprie
abitazioni e nei cortili, livellando poi il tratto in un gestibile, semplice,
terreno battuto.
Arnaldo sapeva che prima o poi avrebbero
dovuto ordinare di fare altrettanto per il resto della via maestra, ma per il
momento preferiva rimandare i lavori e godere della vista, ai suoi occhi
gloriosa, delle zone ancora in buono stato. Poteva sentirne la grandiosità con
il semplice calcare dei suoi piedi e, unico fra tutti quelli che vi abitavano,
riusciva davvero a vedere come era stata al tempo di massimo splendore di Roma.
La strada, Cluana, il mondo. I suoi occhi coglievano la magnificenza scomparsa
dalle rovine degli edifici diruti, dai pavimenti a mosaico quasi del tutto
sepolti. Le colonne dei templi, ora utilizzate come muri portanti per le
baracche e sulle quali venivano inchiodate assi e pelli conciate per creare
pareti e divisori, parlavano di un'epoca che forse non era perduta per sempre.
In cuor suo sentiva che con tempo a sufficienza, nella pace che ora regnava
nella Marca, era possibile far tornare alla luce quel passato. Con la volontà
di uomini come lui si poteva tornare a essere romani.
Arrivò, immerso nei suoi pensieri, nella
piazza, l’unica del Vicus, dominata dalla chiesa dedicata alla memoria del
Santo Marone Martire . Il portale era aperto e a breve sarebbe iniziata la funzione
religiosa. Si affrettò verso la sua abitazione, una costruzione in legno e
mattoni di due piani, l’unica di quell’altezza insieme all’edificio sacro al
suo fianco. Doveva cambiare i calzari e le braghe sporchi di fango. Anche se
Oddo non aveva mai dato peso a tali formalità, ritenendo che fosse importante
essere presenti più con la mente che con il corpo alle funzioni, era buona
norma che lo Sculdascio non si mostrasse mai privo di decoro nelle occasioni di
riunione. Secondo il grasso prete ci si poteva abbigliare con gli ori di
Persia, tanto se sotto si celava un’anima sporca Dio l’avrebbe comunque vista e
giudicata per quel che era. Sorrise al pensiero di Oddo che pontificava come se
si trattasse di un episcopo e mandava su tutte le furie quello, legittimo, di
Firmum. Gli aveva raccontato che al
Vicus era stato assegnato un episcopo un paio di centinaia di anni prima, ma poi si era creato un eccessivo numero di
questi boriosi prelati, e molti erano stati declassati, spogliati dei paramenti
o energicamente invitati a convertire barbari e i pagani. «Cosa se ne fa un
gregge di dieci pecore di cento pastori?» aveva sentenziato Oddo concordando su
quelle misure. Arnaldo non era convinto, se l'episcopo era stato tolto al suo
Vicus lo si doveva imputare ai nobili che non avevano saputo attrarre gente e
creare un centro degno di essere una sede episcopale. Forse lui ci sarebbe
riuscito, si disse con convinzione.
Nella grande sala che costituiva quasi per
intero il piano terra della sua casa –
l'unica ad avere un soppalco che aggiungeva un piano della metà della
superficie bassa, dove lui e la sua famiglia avevano i loro spazi personali –
gli venne incontro Bosso, il maestro della casa. «Signore» lo appellò Bosso,
arrivando trafelato.
«Dimmi Bosso, cosa mi attende di terribile
nell’immediato futuro?»
«Tebaldo dice che è arrivato Cesare.»
«Questa sì che è una notizia. Devo correre
da loro.» Diede istruzioni perché gli fossero portati degli abiti puliti, e
comodi.
«Folco!» chiamò a gran voce. «Folco!»
provò di nuovo guardandosi intorno
«È partito stamattina presto» gli disse
Bosso raggiungendolo con il cambio richiesto.
«Ah già, quel corsiero nuovo che smaniava
di cavalcare. Molto bene, vedrò di fargli sapere la novità. Dai istruzioni alle
cucine, che preparino un banchetto degno di un imperatore, tornerò con ospiti
di riguardo.»
«Anche il franco verrà?»
«Ne sono sicuro. È il primo a presentarsi
quando c’è da mangiare alla mia tavola.»
Bosso gli diede una mano a spogliarsi
degli abiti sporchi. Un ragazzetto si affacciò dal portone e cercò lo sguardo
del servitore anziano: «Mi ha fatto chiamare?»
«Prepara il cavallo dello Sculdascio e fai
venire i suoi per scortarlo.» Il giovane corse via
«La figlia dell’Alperti continua a venire
a cuocere il pane da noi» continuò poi Bosso come se ci fosse attinenza con
quanto si era detto fino a quel momento.
«Non le ho mai vietato di farlo.»
«Torno a ripetere che è quel che dovreste
fare, invece.»
«E perché mai dovrei negarle il pane?
Finché se ne stanno quieti e hanno di che pagare, possono cuocerne quanto ne
vogliono.»
«Non spetta certo a me ricordare allo Sculdascio
che quell'Alperti ha più volte dichiarato la sua completa indipendenza. Non
paga tributi, non manda stagionali per i lavori, non mette i suoi guerrieri a
disposizione.»
«Risolveremo il problema senza abbassarci
al suo stesso livello. Stasera sapremo se ci sarà concessa una dogana autonoma.
Se sarà possibile aprirne una non gli resterà che ammettere la nostra
superiorità su quello scalcinato castrum che lui ritiene sede di chissà quale
impero di quattro pecore.»
Bosso non parve contento, Arnaldo lo
guardò e si domandò se esistesse, per il vecchio, una qualsiasi cosa capace di
essere per lui motivo di felicità.
«Dovreste bruciare quella baracca e
appendere per i piedi gli aldii che si sono sottomessi a lui. Vermi striscianti
quelli, che pur di non tornare a servire convincono il vecchio della fondatezza
delle sue fandonie» sputò a terra con convinzione e Arnaldo scosse il capo.
«Tornerà a chiedere il mio perdono. Il
duca stesso e l’episcopo l’hanno abbandonato al suo rancore, non resisterà per
molto ancora.» Alzò una mano in tempo per fermare la replica di Bosso. «Ma
qualora questo non avvenisse sarò pronto a combatterlo senza alcuna pietà.»
Bosso annuì, dando la sua approvazione a
quelle parole. Controllato che gli abiti del suo signore fossero in ordine,
uscì nel cortile per sorvegliare la preparazione dei cavalli. Arnaldo affibbiò
il pesante cinturone decorato e spostò la spada da quello grezzo che indossava
per la maggior parte del tempo. Ora era pronto ad accogliere i suoi ospiti, si
disse soddisfatto.
***
La mattina in cui Cesare ripartì con il
suo equipaggio, tre giorni dopo il loro arrivo, faceva più freddo del solito. Folco
si era stretto nel mantello e anche suo padre, in sella accanto a lui, si era
avvolto nella cappa pesante mentre attendevano agli ultimi preparativi prima
che la nave veneta mollasse gli ormeggi.
«Il Monte di Ancòn è coperto dalla
foschia, in questa stagione è molto raro che avvenga. Ci sarà bruma fitta, a
breve» disse Arnaldo scrutando la nebbia che si alzava dal mare e si addensava
sotto le nuvole plumbee. Tebaldo dei Franchi era rimasto sul pontile e dava
istruzioni ai servi. Ai suoi piedi c’era una pesante cassa rinforzata da
listelli di ferro. Due uomini armati e vestiti di tuniche nuove per
impressionare, anche nel commiato, i veneti, vi montavano la guardia. A un
cenno di Tebaldo lo aprirono mostrando il contenuto: stoffe grezze e vesti,
giare sigillate con cera vermiglia – piene del vino da lui prodotto nell’ultima
vendemmia – boccali di buona fattura anche se non di materiale prezioso e pani
di cera d’api per combattere il gelo che in mare poteva anche uccidere. Erano
dei doni forse parchi per chi, come Cesare, aveva potuto vedere la ricchezza
delle città dei greci, ma Folco sapeva che dalle sue parti voleva dire molto
riuscire a mettere insieme il contenuto della cassa. Donarlo era un atto di
grande prodigalità.
«I nostri doni non sono stati da meno»
sussurrò a suo padre, che annuì.
«È vero figlio mio, forse ancor più
preziosi di questi. Spetta però a Tebaldo l’onore di donare alla partenza. È
stato lui a introdurmi Cesare, e devo rispettare il rapporto di amicizia che
intercorre fra loro.»
Il signore del porticciolo stava
distribuendo, e abbinava una frase o una preghiera adeguata per ogni membro
dell’equipaggio che sporgeva le mani oltre la fiancata.
«È tempo di salpare, saranno giorni di
freddo e bruma questi» sentenziò Cesare allargando un braccio in direzione del
mare. «Prima doppieremo il Monte e meglio sarà.»
«C’è buon vento da meridione.»
«Sì, terrà bene per qualche giorno, sarà
un piacere per chiunque navighi verso l’aurora» rise forte. «Addio allora,
amici miei. Al mio ritorno avrete una dogana, preparate le assi per i pontili»
salutò con forza mentre gli ormeggi venivano sciolti e gli uomini prendevano a
remare per portare la nave a vento. Quando furono spiegate le vele, Tebaldo
smise di salutare e si voltò verso Arnaldo, che aveva atteso la partenza
rimanendo a cavallo, circondato dai suoi, per mostrare la forza, piccola ma
agguerrita, del Vicus Cluentensis. Schierati lungo la spiaggia sfoggiavano
tutti le migliori tuniche, e le armature a scaglie erano così lucide da
riflettere la luce del sole.
«Sculdascio, questa volta sono certo sarà
quella buona.»
«Me lo auguro. In tal caso dovremo
provvedere a creare un solo punto di attracco, e nominare qualcuno che ne
gestisca il traffico responsabilmente» ammiccò verso l’altro.
«Qualcuno che protegga i naviganti dalle
ruberie dei mercanti del Vicus» rincarò Tebaldo.
«E intaschi una percentuale dei loro dazi,
per tale protezione» intervenne Folco con tempismo, provocando le risate
generali.
«Esatto, giovane Folco, esatto.» Tebaldo
si fregò le mani, pregustando i futuri guadagni.
Lungo la strada verso casa Folco spronò il
suo cavallo più volte, inerpicandosi sulle chine sabbiose e guidandolo con
abilità fra siepi e tronchi. Saltò un ampio fosso e poi, con un eccitatissimo
galoppo, ritornò al fianco del padre, ansante per la dimostrazione di abilità.
«Non c’è dubbio: il miglior corsiero per
il miglior cavaliere che abbia visto correre nelle mie terre» disse Arnaldo
orgoglioso. «Domenica andremo a caccia nella valle di meridione, fra i boschi
del Santo Lepido.»
«Sempre se il tempo non peggiorerà.»
«Non temere figlio mio, nella nebbia si
può comunque cacciare. La sfida sarà ancora più interessante» disse con un
ampio sorriso.
Pace e prosperità per la sua gente, per
suo figlio e per i figli dei suoi figli. Tutto questo stava per realizzarsi
dopo tanti anni di lotte, di fedele servizio,di impegno.
«Vediamo come se la cava il tuo corsiero in un inseguimento» disse all’improvviso dando di sprone. Folco, sorpreso solo per un istante, incitò il suo cavallo dietro quello del padre con alte grida, deciso a non perdere la sfida.
>>> quarta puntata.
<<< seconda puntata.